Perché i giusti patiscono in questa vita e gl'ingiusti vivono soavemente

Una lettera del Curione, nella quale si dichiara, perché i giusti patiscono in questa vita, e gl'ingiusti vivono soavemente. 

Celio Secondo Curione - 1550 



Alla magnifica Madonna. 

Perché io stimo, onorata Madonna, che la vostra domanda sia di quelle pie ed utili ai figliuoli di Dio, specialmente in questi tempi duri; però, sono contento di rispondervi e scriverne brevemente quel che io ne sento, se voi troverete che io ne senta in modo corretto, come ne deve sentire l'uomo cristiano, sentirete come me; ma non dubito, che non stiate per ritenere quel che io ritengo, perché io ritengo ciò che hanno creduto ed insegnato i profeti di Dio, gli Apostoli di Cristo e Cristo stesso.

Innanzitutto, dovete sapere che questa è la ragione per la quale la vera religione di Dio è sprezzata tra gli uomini mondani, poiché essi sono allettati e tirati dalla soavità ed apparenza dei beni presenti e terreni, i quali non appartengono né alla cura dell'anima, né al regno di Dio. E siccome vedono che i giusti sono privi di quei beni dei quali ne abbondano invece gli ingiusti, credono che la religione di Dio sia vana, non vedendoci molti beni; e credono che la vera sia la loro, perché vedono in essa i suoi cultori con quelle ricchezze onori e Signorie. 

Ma coloro che sono di questa opinione, non vedono nel modo giusto, dovrebbero mirare alla forza e l'eccellenza dell'uomo, la quale si trova non nel corpo o nell'uomo esteriore, ma nell'interiore, cioè nell' animo. E altro non vedono, che ciò che con gli occhi corporali si può vedere, cioè questo corpo solamente, il quale è debole, fragile e mortale, e così sono tutti questi beni, i quali paiono tanto meravigliosi alla umana cupidità, quali sono le ricchezze, gli onori, i principati e i piaceri della carne: le quali cose, come ancora il corpo, sono caduche e fragili. Ma l'animo, e l'uomo interno, nel quale è tutta la virtù, vigore, e nobiltà dell'uomo cristiano, e non si può vedere con questi occhi, né si può toccare con queste mani, conviene che abbia i suoi beni dalla sua stessa natura e condizione. Or l'animo è incorruttibile, eterno, immortale: dunque i beni suoi sono celesti, invisibili, divini, e immortali, come la virtù, nella quale sola riluce e risplende il bene, l'eccellenza e dignità dell'uomo; poiché essa è come un ritratto della natura divina, e delle grandezze celesti. Mi dilungherei troppo, se volessi qui ragionare di tutte quelle belle virtù, nelle quali risplendono i veri beni, come è la fede, la speranza, la carità, la temperanza, la costanza la giustizia, la pazienza; ma per il vostro presente quesito, questo per ora basterà, se dimostreremo l'intento nostro da una sola virtù.

La pazienza dunque sarà quella virtù, per la quale avrete da vedere, quanto sia necessario che l'uomo giusto patisca in questa vita, e sia biasimato e perseguitato da quelli che abbondano di questi beni terreni. La pazienza è molto necessaria, dice un servo di Cristo, il quale fu molto bene esercitato in essa (Ebr. 10).

E il Signore vuole che per mezzo della pazienza, possediamo e conserviamo le anime nostre (Luca 21). E Paolo e Barnaba esortavano i discepoli cristiani a perseverare in fede, affermando che per mezzo di molte afflizioni, bisogna entrare nel regno di Dio (Atti 14). Questa è quella gran virtù divina, celebrata con somme lodi, non solamente dalle Scritture Sante, ma ancora da Filosofi, Oratori, e dai Poeti, e pure dal volgo, la quale possiamo veramente chiamare figliuola della fede e della giustizia, sua perpetua compagna. E, se non si può negare che la pazienza non sia fra le altre una somma virtù, e al cristiano sommamente necessaria, né ancora questo si potrà negare, che non sia necessario che l'uomo giusto sia per volontà di Dio nel potere dell'uomo ingiusto, affinché possa aver materia e occasione di patire, cioè, di aver la virtù della pazienza. Poiché la pazienza non è altro che una virtù, la quale fa sì che con grande coraggio e animo tranquillo, patiamo i mali che ci sono fatti, o che in qualunque modo ci possono accadere. Così se l'uomo giusto e cristiano deve avere questa virtù fra le prime, conviene che egli patisca molte cose; le quali se non le patirà, non si potrà mai dire che abbia questa bella virtù della pazienza: la quale non hanno coloro a cui tutte le cose prospereranno secondo i loro desideri.

E poiché l'uomo giusto ha posto il suo cuore in cielo, dove ha il suo tesoro, egli non desidera, e non ricerca questi terreni e caduchi beni, né potenze, né onori, né ricchezze, per non aver occasione di fare ingiuria di quel poco che piace a Dio di dargli, non cerca più che quanto gli basta per sostentare la vita, e di ciò che ha, ne fa parte a chi non ha, perché ha carità, la quale essa ancora, è una delle più belle virtù che il cristiano possa avere. E oltre questo, egli fugge e disprezza le voluttà della carne, per motivo del quale con ogni violenza e ingiustizia, e per mille torti, si vogliono ricercare le ricchezze. Dipoi, il cristiano non è superbo né insolente, ma umile, modesto, e mansueto, e benigno; perché conosce e sente la corruzione della sua natura e la propria fragilità e condizione mortale.

E per il contrario, l'uomo ingiusto, poiché ha queste cose mondane per il suo sommo bene, e di quelle se ne ha fatto un idolo e un Dio, desidera le cose degli altri, e spesse volte nuoce, e vuol rapire ciò che desidera ottenere; cerca per ogni via di pervenire a qualche alto grado; scordandosi della propria fragilità, va gonfio e superbo, disprezzando l'umiltà e mansuetudine dei giusti. Quindi otteniamo, che gli ingiusti avversari della vera religione, fioriscono di ricchezze di potenze, di onori. Questi sono i loro premi in questa vita; questa è, come dice un savio, la parte loro (Sapienza 2). Poiché dunque, siccome il Cristiano non fa ingiuria ad alcuno, né desidera quello che è di altri, né pur le cose sue, se gli vengono tolte, egli difende con violenza, ma con buona pazienza sopporta le ingiurie a lui fatte, egli è necessario che l'uomo pio, ovvero Cristiano, sia soggetto all'empio e falso: affinché quello pecchi perché è ingiusto, e quell’altro patisca, perché è giusto (Rom 1; 2 Piet. 2).

Vi sono ancora delle altre ragioni, per le quali Dio vuole che i suoi patiscano povertà, esili, ignominie, ingiurie, e altri mali; e per il contrario che gli ingiusti ed empi, vivano soavemente. E questa ne è una, la quale dalle Scritture Sante è molto prescritta... Si vede che un padre di famiglia, non ha quella cura dei figliuoli degli altri, che ha invece dei suoi, non li castiga quando sbagliano, né cerca di tenerli sotto la sua disciplina, ma invece i suoi li castiga e corregge, perché gli sono carissimi, e tenta per ogni via di condurli alla virtù, e al fine che si è proposto. Così fa Dio, egli castiga i suoi cari figliuoli, con molti travagli e varie tentazioni, gli usa alla virtù e li esercita alla pazienza, e non li lascia corrompere da questi beni mondani e volgari: ma gli altri che non sono dei suoi e i quali la Scrittura chiama bastardi, li lascia vivere dissolutamente, e senza castigo, giudicandoli indegni della sua correzione e disciplina; benché qualche volta per giusto giudizio di Dio, costoro finiscono per dare un orrendo spettacolo e una strana mostra su un paio di forche. 

Però, non ci si deve meravigliare se o per correzione dei nostri peccati già commessi, o per precauzione di quelli nei quali potremmo incorrere, o per mortificazione del vecchio uomo, siamo spesse volte castigati. Anzi quando siamo o da malattie, o da uomini malvagi, vessati, e malmenati, allora al massimo grado dobbiamo riconoscere la cura che ha di noi il nostro pietoso Padre, in quanto che non lascia andar più avanti la nostra corruzione o mal costume: ma con la medicina del castigo la raffrena, sana, affinché non periamo insieme con gli uomini mondani, come S. Paolo dice (1.Cor. 2).

Iddio, potendo dare al popolo cristiano e alla vera chiesa, delle ricchezze, dei regni, e degli onori di questo mondo, come nel passato egli aveva fatto con i  Giudei, non l'ha voluto fare, ma ha voluto che vivesse sotto l'imperio o signoria di altri, affinché per la prosperità e abbondanza delle cose terrene non fosse corrotta e non si desse alle delizie e ai piaceri di questa vita, e così ai comandamenti suoi volgesse le spalle, come fecero i Giudei, i quali sovente, inteneriti ed indeboliti da questi mondani e caduchi beni, lasciarono la disciplina del Signore, ruppero i vincoli della sua legge (Deut. 32). Affinché dunque l'ozio e abbondanza, e le comodità di questa vita non corrompessero i suoi figliuoli, ha voluto che da quelli fossero afflitti, (Luca 10) nelle cui mani, e nei cui paesi gli ha collocati, affinché per tal modo confermasse i deboli, correggesse gli erranti, riparasse nella fortezza i delicati e dissoluti, e i fedeli e costanti tentasse e provasse.

Ditemi, vi prego, come potrà il capitano far prova della virtù dei suoi soldati, se essi non avranno alcun nemico che gli dia molestia? benché quel capitano trovi il nemico contro il volere suo, poiché essendo mortale può esser vinto. Ma Dio, al cui volere nessuno può fare resistenza, muove e suscita gli avversari contro il nome suo (come fece Faraone contro gli Israeliti, Shemei contro Davide, gli Assiri e altri contro i Giudei, e a Paolo lo stimolo nella sua carne, cioè, come io intendo, l'odio, e il gran contrasto, e amaro zelo della sua gente) i quali combattono contro i suoi soldati, per provare la devozione, la virtù, e la fede loro, e per farli conformi all'immagine del suo figliuolo Gesù Cristo (Rom. 8), il quale come animoso e buon Re è andato primo, e ci ha facilitata la via (Ebrei 12). Però uno dei suoi più generosi capitani ci esorta, che lasciati indietro tutti gli impedimenti ed il peccato, corriamo con pazienza come valorosi soldati, nell'ostacolo che ci è proposto, tenendo sempre gli occhi dell'animo e della fede fissi nel capo e consumatore della nostra fede nostra, Gesù Cristo, il quale essendogli proposto il gaudio, scelse piuttosto di sostenere la croce, non curandosi dell'ignominia che essa gli portava, e ora siede alla destra di Dio nei cieli. E però se patiremo con lui, con esso parimenti regneremo (Rom.8). Non avrà la corona, dice Paolo, chi non combatterà virilmente (2. Tim.2).

Ma qui è necessario che con molta diligenza prestiamo attenzione a due scogli, nei quali se la nostra barca urtasse, correrebbe il pericolo di rompersi. Il primo è questo, che per il nostro patire in qualunque maniera, non pensiamo neppure in una minuscola particella a soddisfare i nostri peccati. L'altro, che non crediamo di raccogliere dei meriti per le nostre afflizioni: sia l'uno, che l'altro sarebbe una grande bestemmia contro Gesù Cristo, il quale soltanto è stato castigato per i nostri peccati, ed ha pienamente fatto soddisfazione per essi; e per la sua grande obbedienza, ha meritato per noi, non solamente la remissione di tutti i peccati, ma altresì la vita eterna (Rom.8). 

San Paolo dice, che tutte le afflizioni le quali si possono patire in questa vita, non possono in minima parte essere paragonate alla gloria che ci aspetta nell'altra vita. Egli è molto ben vero, che Dio ci castiga molte volte per i nostri peccati, non per soddisfazione, né perché si aumentino i meriti, ma per farci conoscere prima che i peccati gli dispiacciono, e poi per rimuoverci da essi; poi, come poco avanti ho scritto, per renderci più avveduti e cauti nell'avvenire; ed infine perché per essi non sia ritardato il corso con il quale camminiamo alla beata vita, alla celeste patria. Ora, per ritornare al punto, udite per favore, in cosa si gloriava Paolo, quel valoroso capitano della nostra milizia, ed allo stesso tempo che frutto si ricava dalle afflizioni, e di quanta durata sia la pazienza cristiana. Noi (dice) nelle afflizioni ci gloriamo, sapendo che l'afflizione genera la pazienza, e la pazienza genera l'esperienza, e l'esperienza genera la speranza, e la speranza non ci inganna, poiché la carità di Dio è infusa nei nostri cuori per lo Spirito Santo, che ci è stato dato (Rom. 5). 

Egli vuol dire, che nelle afflizioni, e nelle avversità, si esercita la pazienza, della quale avendo noi più volte fatto prova ed osservato che dalle tentazioni  siamo usciti vittoriosi con l'aiuto del Signore, entriamo in una ferma speranza dell'amore di Dio verso di noi, della sua provvidenza, e sentiamo lo Spirito Santo, che è lo spirito di Cristo in noi il quale ci certifica di questo; sapendo che egli non ci può dar maggior caparra e pegno, che l'averci comunicato lo Spirito suo Santo. Non vi sembrano esser questi, grandi frutti, che nascono dal patire per Cristo, e si raccolgono?

E per venire alla conclusione, questa è ancora una delle ragioni, poiché Iddio e Padre nostro ci lascia affliggere e perseguitare. Egli lo fa affinché il popolo suo e Chiesa sua vada aumentando. Né per qual motivo questo si faccia, e in che modo, è difficile da mostrare. Primo, molti vedendo tanta crudeltà verso gli uomini innocenti, e ai quali non si può altro opporre, eccetto che non vogliono consentire alle loro cerimonie ed invenzioni, né adorare le statue, né supplicare gli uomini morti, hanno in orrore quella crudeltà, e il voler forzare e costringere alla religione le persone, cominciano a dispiacersi, e a poco a poco si vanno alienando da quelli, e dai loro riti e cerimonie; perché sanno che nessuna cosa deve essere tanto libera e volontaria, quanto la religione; poiché la religione si deve difendere non uccidendo, ma morendo: non con crudeltà, ma con pazienza; non con l'empita, ma con la pietà e con la fede.

Ma se la vorrai difendere con lo spargere il sangue degli innocenti, con i tormenti, e altri mali, essa non sarà difesa, o confermata pura e netta, ma piuttosto violata e contaminata. Dunque, il vero modo di difendere la religione è, se tu la difendi con la pazienza e con la morte, e così viene confermata la fede, la quale piace a Dio, ed accresce alla religione l'autorità e la reputazione. 

Dipoi, ad alcuni piace quella costanza e quella fede. Altri pensano, non senza ragione che quei riti e quelle cerimonie, e tutta quella vana religione, sia da tanti uomini e donne di vita con costumi santissimi, falsamente reputata; il che dimostrano apertamente, volendo piuttosto morire, che far quello che altri fanno per poter vivere. Altri desiderano sapere cosa sia quel gran bene a cui i veri Cristiani preferiscono a tutte le cose che appaiono piacevoli e care in questa vita; poiché dall'amore di quello non possono essere tirati indietro né dala perdita dei beni temporali, né della vita, né dai severi tormenti del corpo, né dalle larghe promesse dei beni e onori, né da altra cosa.

E benché queste cose che ho raccontate fin qui, siano realmente evidenti motivi per cui il nostro Iddio ci lascia così patire, nondimeno questa non è delle minori, che per la pazienza e costanza dei martiri, Iddio accresce il numero dei credenti. Il popolo sente a riguardo dei nostri, i quali spesso dicono nel mezzo dei tormenti e del fuoco, che non si vogliono inchinare alle pietre o verso i legni, né ad altra cosa fabbricata dalle mani degli uomini, ma solo al Dio vivente e a Gesù Cristo suo figlio che è nei cieli. Molti toccati dallo Spirito di Cristo, comprendono questo esser vero, e lo ripongono nel cuore. 

Poi, come si usa fare in questi casi, le persone domandano l'una all'altra quale sia la ragione di una tale perseveranza e pazienza; ed in tal modo, molte cose che appartengono al vero culto e religione di Dio, si dicono e si leggono, le quali, poiché sono buone, soavi e dolci, piacciono a coloro i quali hanno le orecchie aperte alla verità.

Queste sono le ragioni, ed altre a noi forse nascoste, per cui Dio vuole che i suoi patiscano in questa vita, ai quali egli ha poi preparata una miglior vita in cielo con Cristo, che è la vita nostra, la quale vita a suo tempo sarà manifestata (Colossesi 3). E per il contrario, egli lascia vivere qui gli ingiusti, licenziosamente, nei piaceri e nei fallaci beni di questo mondo, affinché avendo qui ricevuta la mercede e la felicità, ricevano dopo il loro compenso della infedeltà e crudeltà. Pertanto, non pensino gli ingiustissimi persecutori degli innocenti, i quali bestemmiano e beffano il Santo nome di Dio; non pensino dico di cavarsela senza punizione. Saranno puniti aspramente, perché hanno usata la potestà data a loro da Dio, contro di lui e dei suoi figliuoli; ed hanno calpestato con i piedi il sangue di Cristo, per il quale dovevano salvarsi, e fatto calpestare da altri. Egli ci ha promesso di farne presto la vendetta, e di estirpare le cattive erbe dalla terra (Ezechiele 34).

E benché la cosa stia in questo modo, nondimeno egli ci comanda che pazientemente aspettiamo il giorno nel quale avranno da rendere conto alla stretta con Colui che essi hanno disprezzato; nel qual giorno si renderà a ciascuno secondo le opere della sua fede, o infedeltà. Verrà, verrà, dico ai voraci ed arrabbiati lupi, il giorno della loro mercede, i quali hanno tormentate le giuste e semplici anime. Noi ci impegniamo solamente ad onorare la nostra professione, e diamo opera, affinché dagli uomini, in noi venga punita nient'altro che la giustizia, l'innocenza o la fede; che nessuno patisca (come S. Pietro ci esorta 1 Pietro 4) come micidiale, come ladro o come malfattore, o cupido delle cose di altri, ma come cristiano, il quale è un favore che ci viene fatto da Dio, (Matt. 5) e siamo chiamati a questo. Il Signor nostro chiama beati quelli che patiscono per essere giusti e per il Suo nome, non quelli che patiscono per i mali fatti da loro stessi.

Preghiamo Dio Padre nostro per Gesù Cristo che, agli avversari (se alcuni fra di loro sono de suoi) dia lume, e a noi quella pazienza dei santi, senza la quale nessuno può salire in cielo. Questo è quello che per ora mi ha dato Dio per rispondere alla vostra domanda. Voi, onorata Madonna, con lo studio delle Sante Scritture, e con l'uso della pazienza, andrete aiutando e illustrando questa nostra piccola composizione e pregherete Dio per noi. 

Del 1550 il giorno della circoncisione del Signore.

Celio Secondo Curione 

Tratto daFamiliare e paterna istituzione della religione Cristiana 1550 - Celio Secondo Curione

Traduzione dall'italiano antico all'italiano odierno: evangelodelregno.blogspot.com

 VEDI ANCHE :

LETTERA DEDICATORIA alle Cento e dieci divine considerazioni di Giovanni Valdés - Proposta da Celio Secondo Curione


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